Agnes Obel, con un volto bello e gentile, e belli capelli biondi (una Julija Tymoshenko della prima ora della canzone nordica) potrebbe indubbiamente far leva sulla sua bellezza, ma non ne abusa: nelle foto dei concerti preferisce restituire l’atmosfera jazzy, da club fumoso e intimo, mai sensuale e torbido e sempre onirico, di remote memorie flou: «Per scrivere questi due dischi ho provato ad andare molto indietro nel tempo, tornando con la mente a queste memorie di melodie, di suoni di quando ero bambina».
E infine, schivata la pioggia di inevitabili “mi ricorda un po’…” (il Nyman di The Piano, Kate Bush, Enya, Erik Satie, Joni Mitchell, PJ Harvey…) resta la fonte che lei stessa ci svela nel bis: queste infinite, minimaliste melodie cullanti, queste ninne-nanne pop, questi sogni che ti stordiscono come un valzer fiabesco infinito vengono dalle antiche melodie nordiche, dalle “ballads” scozzesi, inglesi, scandinave. Lì c’è il germe di tanta della malinconica grazia di questa incantevole Obel.
Daniele Martino
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