Pier Paolo Pasolini in un saggio del 1973 immediatamente paragona Gozzano a Kafka: «Per tutti due l’essere è un colloquio con se stessi, in cui dibattere il problema della propria impotenza, rendendolo infinitamente complicato per poter avere, insieme, infinite ragioni per giustificarsi»; la poesia di Gozzano è narrativa, «anche quella in versi brevi e di breve taglia. Se non è una vera storia che egli racconta, è comunque una “scena” di vita reale». Come narratore, Gozzano è un narratore naturalista, e in quelle narrazioni così ottocentesche ecco che il lirismo «si inserisce come momento culminante, a effetto teatrale». Pasolini prende le distanze da Gozzano quando vede nel suo umorismo molta involontaria parodia intrappolante: Gozzano sarebbe, come una farfalla, invischiato nella ragnatela ironica da lui stesso imbastita. Infine, per Pasolini, tutti i poemi gozzaniani non sarebbero che le parti di una sorta di grande cantica dantesca, un’unica storia per un unico progetto, in registro lento come lo stile di un’epigrafe o in «registro veloce, quasi da melodramma». Che Pasolini detesti Gozzano, com’è prevedibile, lo si scopre alla fine delle cinque paginette: «Gozzano è difficilmente riducibile a iniziatore o modello per eventuali teorie o gusti letterari nuovi che vogliano storicamente promuovere la propria nobilitazione»; Gozzano non sarebbe affatto crepuscolare, perché poeta «spietatamente e incondizionatamente in luce, così incapace di penombre e sfumature».
Pasolini si sbaglia. Anche perché non ha previsto che qualche poeta italiano degli anni Novanta potesse proprio sentire nella propria carne poetica Gozzano come «iniziatore o modello per eventuali gusti letterari nuovi». Se non credessi fortemente che Gozzano è un poeta molto vivo, chance di una linea per il tempo che viene, non sarei qui. Non sono qui per spiegarvi chi era Gozzano, né per scavare un cunicolo nella montagna di letteratura critica a lui dedicata: credo ne sappiate anzi molto più di me, in materia. Quindi, se eravate qui per questo, mi scuso e me ne vado.
«Manipolazione manieristica del linguaggio, controcanto ironico alle ipotesi di sublime poetico, ambivalenza affettiva verso il tono patetico amato e parodiato: tutto ciò in effetti, può far presentare Martino come un legittimo pronipote del suo concittadino di inizio secolo» ha scritto di me poeta Mauro Bersani presentando il quaderno einaudiano Nuovi poeti italiani 4 nella primavera del ’95. Eccomi, pronipote legittimo di Guido Gozzano. Sono qui per questo. Sono qui per testimoniare un’idea di poesia contemporanea. Se Gozzano avesse creduto al sublime, se avesse creduto di poter gonfiare il petto sociale del suo narcisismo non sarebbe stato che un altro D’Annunzio. Il suo tempo era invaso da quell’uomo, da quel seduttivo e spettacolare cultore di se stesso e artefice di una letteratura perfettamente consumabile dal proprio tempo, dalle proprie lettrici eccitate e dai propri lettori ammirati dalla tecnica di sfondamento. Invece Gozzano aveva scelto, antipatico e meschino (la gente definisce così quelli che strappano i veli dalle finzioni) di farsi perito settore delle illusioni che vedeva perseguite e realizzate (illusoriamente) dallo stile dannunziano. Questo meccanismo non è datato: non è, questa, la storia di due cadaveri di inizio secolo: ogni momento della nostra vita, della nostra letteratura, è sempre uguale: c’è sempre qualcuno che si fa avanti e dice: «Il mondo è reale. Io sono un reale abitatore del mondo. Io realmente sto dominando questo mondo»; così come c’è sempre qualcuno che si fa indietro e dice: «Il mondo è illusorio. Io non sarò l’abitatore di questo mondo. Io realmente sto abbandonando questo mondo». Gozzano stimava San Francesco, e nel 1916 scrisse una sceneggiatura sulla storia così irreale e quindi così cristiana, e leggeva testi di religiosità orientale; nel Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer vedeva affinità tra buddhismo e francescanesimo; Dogen, il maestro che portò lo zen dalla Cina in Giappone, era coevo di San Francesco: che strana sintonia di risvegli spirituali in mondi remoti che soltanto gente come Marco Polo faceva curiosare l’uno nell’altro, di quei tempi…
Gozzano, giornalista alla moda, era comunque ritirato dal mondo: come avrebbe potuto osservarlo così lentamente, attentamente, scientificamente, se ci fosse stato in mezzo? Se avesse creduto a quello che viveva? Così, appartato, come un malinconico fotografo cominciò a scattare poesie del mondo abbandonato; la tisi che lo uccise, il viaggio in India gli diedero sufficiente materiale per capire che quello che accadeva era illusione di cui sorridere al suono di un carillon di bimbi. Il parlato delle persone così vere che sono diventate personaggi della sua Ironica Commedia è così vero che non potremmo immaginare che le bimbe di sua sorella o la cocotte o il commesso farmacista non siano esistiti esattamente come Gozzano lì ha poetati. Non è possibile altrimenti. No. Trattati come un’ironica illusione e osservati come ridicole farfalle agli ultimi palpiti d’ali prima di finire conficcati sotto lo spillo di una entomologica descrizione, quei personaggi sono vecchi, oggi, solo perché dotati di vestiti, profumi, consuetudini, imbarazzi, giochi, suoni, arredi, buone cose di pessimo gusto eccetera. Quegli attributi datano Gozzano, ma la tecnica è il modello di una poesia contemporanea che non si illude di un ruolo, e che insieme lavora per rivelare a tutti che il mondo non è che un’illusione che simultaneamente, con lo stesso specifico peso, può farci piangere o sorridere. Mi spiace tanto per Pasolini.
Malinconia e ironia, OK. Con l’obiettivo di riportare il grande pubblico alla poesia con una lingua accessibile, contaminata dai gerghi contemporanei, con la rinuncia al rango di poeti, con la consapevolezza di essere nati già postumi, in mezzo alla enorme discarica letteraria che ci è franata addosso prima che potessimo scansarci:
che tutto m’ha tentato
tutto: e l’immortale
gloria ed il bene e il male
e tutto m’ha tediato.
Il viale delle statue
Il primo passo fuori dal mondo è il tedio per il mondo, un tedio molto serio, molto sofferto, che tuttavia è bene superare, perché niente è possibile reinvestire in una realtà che, creduta reale, dà sofferenza reale, e, creduta illusoria, dà sofferenza illusoria. Ma tutto con grande serietà:
Non si rida alla pena solitaria
di quel poeta; non si rida, poi
ch’egli vale ben più di me, di voi
corrosi dalla tabe letteraria
Il commesso farmacista
Chi soffre, chi scrive versi magari goffi, ma dettati da una sensibilità sincera, vale davvero più di qualsiasi professionista della scrittura: questo lo diceva Gozzano, che sapeva scrivere, e questo lo sente anche chi crede più agli esseri viventi che agli esseri scriventi. Nessun commesso farmacista potrà mai essere corroso «dalla tabe letteraria» perché quando scriverà sarà fuori del suo mondo di farmaci, sarà affidato alla convinzione che la scrittura possa essere un medicina della sua sofferenza: quel commesso, se non sarà mai il migliore degli scrittori, sarà almeno senz’altro il migliore dei lettori.
Il mondo non è che illusione, non è che una farfalla che vive un giorno, e il Tutto che tutto sembra essere non è che il proficuo, cosmico Niente; sentitelo, il sutra del quasi illuminato:
Socchiudo gli occhi, estranio
ai casi della vita.
Sento fra le mie dita
la forma del mio cranio…
Ma dunque esisto? O strano!
vive tra il Tutto e il Niente
questa cosa vivente
detta guidogozzano!
…
Non agogno
che la virtù del sogno:
l’inconsapevolezza.
…
Sognare! Il sogno allenta
la mente che prosegue:
s’adagia nelle tregue
l’anima sonnolenta,
siccome quell’antico
brahamino dei Pattarsy
che per racconsolarsi
si fissa l’umbilìco.
La via del rifugio
Strani, questi termini indiani: la Via, il Rifugio, la meditazione dell’«antico brahamino» equivocata in un «racconsolarsi» fissando l’hara, l’ombelico; il sogno ipnotico come obliqua oblivione, come oblio trasversale che scarta dal tedio totale…
E il tedio,
il sonno… il Lago… Errina… ed il Parrasio…
E in me cadeva forse il primo germe
di questo male che non ha rimedio.
I sonetti del ritorno, III
Il «male che non ha rimedio» è questo sbagliare Via e Rifugio, questo non trovare rimedio all’intuizione giusta dell’illusorietà del tutto. Forse troppo scettico per vivere un sentimento religioso, ma troppo intimo con se stesso per annegarsi nella mondanità laica, forse troppo borghese per non sprofondare nella libertà come Baudelaire, il poeta dei colloqui sussurrati sa comunque riconoscere le cose, e cerca l’inconsapevolezza perché la consapevolezza senza illuminazione è un tormento troppo grande, uno spillo troppo dolorosamente conficcato nella propria coscienza percettiva:
La favola divina
m’è come ai nervi inqueti
un getto di morfina
…
Certo. Ma che bisogno
c’è mai che il mondo esista?
Nemesi
Bene, tutto è chiaro: il mondo non esiste. Ma perché, allora, quella sofferenza di attardato, di annoiato senza più diritto al dolore, di scansato dal corso delle cose?
Non vivo. Solo, gelido, in disparte,
sorrido e guardo vivere me stesso.
I colloqui
Ah! veramente non so cosa
più triste che non essere più triste!
L’ultima infedeltà
Non può esserci nemmeno compiacimento nel ruolo di Poeta: basta, non c’è riconoscimento sociale; poeta, come scriveva Flaubert nel Dizionario dei luoghi comuni, è «sinonimo di scemo, sognatore», e poi valgono più i versi sentiti di un commesso farmacista che quelli ben scritti di un commesso della letteratura; non c’è immagine, non c’è funzione sociale, speranza di aiutare qualcuno a decifrare la propria malattia interiore, quindi ecco l’urlo centrale di tutta la poesia di Guido Gozzano, e di tutta la poesia dei suoi legittimi pronipoti:
Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!
La signorina Felicita ovvero la Felicità)
E allora, come il «piccolino» di Cocotte, non ci resta che giocare, al cospetto di qualche donna sensuale, «al Diluvio Universale», fare i «Totò Merùmeni, dopo tristi vicende» quasi felici; alternare «l’indagine e la rima» chiusi in sé stessi, meditando, accrescendosi, esplorandosi, intendendo «la vita dello Spirito» che non si «intese prima»:
vivere in una villa solitaria,
senza passato più, senza rimpianto:
appartenersi, meditare… Canto
l’esilio e la rinuncia volontaria.”
Un’altra risorta
Meglio tacere, dileguare in pace
I colloqui [II]
L’entomologo delle illusioni a un certo punto, guardando i bruchi che si dibattono nelle crisalidi diventando farfalle, capisce che siamo come loro, imprigionati nel nostro Ego crisalide, nei nostri imbozzolati Sé, nelle nostri menti chiuse, scimmie ubriache di desideri sempre sfiniti e irreali:
uno spasimo ignoto li tormenta:
essere un altro, uscire di se stessi!
Uscire di se stessi!
…
Ed io mi sono
quel negromante che nel suo palagio
senza fine, in clessidre senza fine,
custodisce gli spiriti captivi
dei trapassati, degli apparituri.
Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non esser più,
del non essere ancora.
Epistole entomologiche. Storia di cinquecento Vanesse
Il poeta è il negromante che ha capito tutto, lo sciamano che, ritualmente morto, può consultare la vita e vedere se stesso e gli altri custoditi in «clessidre senza fine», nel regno liberato «del non esser più, del non essere ancora», consegnato all’istante, al qui e ora di un presente eterno. È il peccato di essere schiavi del vile Ego!
Ah! Difettivi sillogismi! L’io
che c’è sì caro, muore ad ogni istante
senza rimpianto. Muore nel riposo
e nella veglia. Un calice di vino
un grano d’oppio uno sbigottimento
una ferita, basta a dileguarlo.
Ah! Difettivi sillogismi! l’io
Leggendo Intossicazione, una prosa giornalistica di Gozzano del 1911, ho pensato a un libretto d’opera (che sto scrivendo per il compositore palermitano Marco Betta); è l’analisi di un caso di cronaca nera: Stefano Ala, montanaro-poeta di bei versi in italiano e in francese, amando non riamato una ragazza del paese, essendo intossicato dai miti poetici, uccide lei e il ragazzo che la corteggia e finisce in galera come “criminale”; mi sono divertito a frugare tra le cronache del tempo, tra gli atti del processo; sono salito dai pronipoti di Stefano Ala, fino al paesino della Valle di Susa dove veramente si svolse quella tragica vicenda di amore illusorio tragicamente preso per vero da una ragazzo “poeta” istintivo come quel commesso farmacista. Gozzano, scrivendo per un giornale e per quelle madame che al processo piangevano per il povero valligiano che rischiava la pena di morte per aver troppo amato una ragazza che si divertiva con gli altri, si risveglia odiosamente borghese (scrive «noi»), ma vergognosamente riflette su come una persona “reale” si lascia ‘intossicare” dalla letteratura solo finché il libro è aperto; un “puro”, invece, si “contamina” sino a espiare la sua assolutezza. Mi viene in mente il romanzo contemporaneo dello scrittore austriaco Robert Schneider, Le voci del mondo, la storia di un montanaro unto e scrofoloso che per troppo amore decide di morire togliendosi ad oltranza il sonno, storia antica ma raccontata con una scrittura “splatter/romantica” molto contemporanea, che è diventata non a caso un melodramma, proprio come io ora tento di fare diventare melodramma la storia “vera” di Intossicazione. Penso spesso a quei mondi montanari e perduti di quei ragazzi, alla loro capacità di uccidere e uccidersi per un’idea di bellezza ed amore molto forte, convinti che l’illusione dei sentimenti sia migliore della realtà….
Il 10 giugno del 1907, scrivendo ad Amalia Guglielminetti, lo zio Guido la pensava così: «E appunto alla serenità socratica innestata e fecondata da tutte le tendenze moderne, vorrei informata la mia nuova poesia: la poesia di colui che si sente svanire a poco a poco, serenamente, e sente il suo io diventare gli altri».
Nel Gozzano più segreto e incompiuto, quello del cosiddetto Album dell’officina, c’è tutta un’essenza distillata d’alchimista, tutta un’entomologica perizia nel centrare il cuore vitale di una vita per renderla eternamente bella nella sua ormai immobile splendida bellezza; e con questi versi buttati giù dal vecchio zio per sé e non per noi vi lascio, pregandovi di credere poco alla poesia, e molto ai poeti:
Il saggio deve mostrare in tutte le
avventure della vita, la serenità del buon
giocatore, l’innocenza gaia del fanciullo
che si diverte, la grazia sorridente del
danzatore. Rinunziare al pessimismo
e alla malinconia; danzare al di là
di noi stessi: vivere al di là di noi stessi.
…
E allora tu ritroverai
ogni dolore ed ogni gioia e ogni amico
e ogni nemico e ogni speranza e ogni
errore e ogni filo d’erba e ogni raggio
di sole.
Meda, Liceo Curie, 3 ottobre 1996