Dopo trenta pagine di introduzione, e settanta pagine di note esplicative, e seicentotrenta pagine di poesie, l’ultima poesia di Wallace Stevens si distende, quasi chiara, quasi toccante; «è forse l’ultima poesia di S.» spiega Massimo Bacigalupo, che ha curato e tradotto con dedizione monumentale questo Harmonium, che raccoglie quasi tutto il lavoro dello scrittore americano morto il 2 agosto del 1955; l’ultima poesia si intitola Of Mere Being (Del mero essere), è breve, letterariamente impeccabile: «Un uccello dalle piume d’oro canta nella palma, senza senso umano, senza sentimento umano, un canto strano. Sai allora che non è la ragione a renderci felici o infelici. L’uccello canta. Le piume splendono». «Without human meaning, without human feeling», scrive uno Stevens settantaseienne; vicino a morire, è come se rileggesse in un lampo la sua opera e la sua vita: così formale e raziocinante e cavillante e astratta la prima, così normale, impiegatizia, comoda e gustosa la seconda.
Nato nel 1879 a Reading, una cittadina della Pennsylvania, figlio di un avvocato solitario e introverso, Wallace fu avvocato solitario e introverso, e nel 1903 si laureò alla Scuola di Legge di New York. Entrò subito nel settore assicurativo, divenendo nel corso degli anni il più importante assicuratore degli Stati Uniti d’America, quale vicepresidente della Hartford Accident and Indemnity Company, con sede a Hartford, capitale del Connecticut; la Hartford non aveva presidenti, e l’avvocato Stevens, alto, massiccio, corpulento come il nostro Gadda (ingegnere-scrittore) occupava indefesso la sua poltrona di comando, attento ai sottoposti che per esigenze di servizio dovevano recarsi in qualche biblioteca: aveva sempre qualche significato da scoprire, qualche parola da stanare per le sue poesie.
Wallace Stevens, che scopriamo così placido, affettuoso e saggio nei ritagli di lettere che leggiamo nelle Annotazioni di questo “Millennio” Einaudi, era sposato con una moglie con cui litigava spesso, e aveva una figlia che non sopportava più quel teatrino nevrotico casalingo. Poeta freddo, «snow man» come il personaggio di una sua poesia («Si deve avere una mente d’inverno per guardare il gelo e i rami dei pini incrostati di neve»), l’uomo Stevens scoprì nel 1922 la Florida; a Miami per una questione assicurativa con il giudice Arthur Powell, fu invitato da quest’ultimo in un villaggio di pescatori a Long Key, come racconta in questa lettera alla moglie: «Il mare è a quindici metri dalla casetta in cui ho dormito la notte scorsa; stamane sono uscito col solo pigiama e l’ho usato come costume da bagno, nuotando tra le onde. Non ci sono donne, così si può fare il proprio comodo. Il luogo è un paradiso; tempo di mezza estate, cielo chiaro brillante e blu intenso, mare blu e verde, più di quanto tu abbia mai visto». Il calore tropicale della Florida (O Florida, terra venerea è del luglio 1922), cui Stevens tornerà ogni inverno per scaldare il corpo dal gelo del Connecticut, non scioglierà la sua poesia; solo i colori, combinati dalla sua straordinaria sensibilità visiva, ravviveranno i freddi teoremi sulla vita e sulla poesia; americano con radici olandesi, Stevens dipingeva versi in modo davvero simile ai Pennsylvania Dutch, manufatti artigianali degli immigrati olandesi da cui questo libro è decorato: tratti elementari, medievali, colori asciutti, riservati, simbologie astratte, allegoriche e remote, fiori secchi, immobilizzati sulla carta, devitalizzati della loro linfa e preservati nella loro immagine; Stevens ha qualcosa del Dante del Paradiso: idee, concetti, visioni di luce, sparizione dei corpi, delle passioni, dei sentimenti…
Spesso spiritoso e giocherellone (ma alla Carroll, alla Lear, beninteso), Stevens detestava il sentimentalismo e l’autocommiserazione, e nel meno difficile e più anti-baudelairiano dei suoi numerosi e indigesti poemetti, Esthétique du Mal, sistemava così chi si lamentava della sua freddezza: «Livre de toutes sortes de fleurs d’après nature. Ogni sorta di fiori. Ecco il sentimentale… Il genio della sfortuna non è un sentimentale. È quel male, male dell’io, da cui, in santità disperata e gesto rude, il difetto si diffonde ovunque: il genio della mente, nostro essere, che sbaglia e sbaglia, il genio del corpo, nostro mondo, consumato nei falsi scontri della mente».
L’harmonium di Stevens, per noi «unhappy people in a happy world», suona una musica mentale, una interminabile fuga da Whitman, dalla passione, dal dolore e dai sentimenti, ci toglie da noi per aiutarci a cercare una astratta felicità in questo mondo: proprio come il vicepresidente avvocato Wallace Stevens ogni tanto si toglieva dalla noia terragna di Hartford per andare a cenare al Waldorf Astoria di New York, trionfante di felicità formale e mondana.
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Wallace Stevens
HARMONIUM
Poesie 1915 – 1955
a cura di Massimo Bacigalupo
Einaudi
pp. XXXVIII-700 • £. 110.000
il manifesto (la talpa libri) 27 ottobre 1994